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“Che soddisfazione aiutare gli immigrati a integrarsi”

16 Luglio 2025
Autore:
Francesca Pasquali
Foto di Tommaso Cutesa

Dopo un tirocinio universitario, il 21enne Tommaso Gutesa è diventato volontario di Acsim Ets di Macerata. Tommaso è il protagonista di questa puntata del podcast e del blog.

Mi sono detto che le mie 300 ore di tirocinio non sarebbero state tempo perduto. Scorrendo la lista delle convenzioni dell’università, ho trovato l’Acsim. È stata una bellissima esperienza, formativa dal punto di vista accademico e personale perché, oltre a svolgere diverse mansioni, sono stato a stretto contatto con persone che avevano bisogno di aiuto.

Tommaso Cutesa ha 21 anni ed è di Montesilvano, in provincia di Pescara. Ha studiato Mediazione linguistica a Macerata e, durante il suo percorso universitario, ha svolto un tirocinio all’Acsim, Associazione centro servizi immigrati Marche Ets, dove, una volta terminato il periodo di formazione, è rimasto come volontario.

Perché hai scelto di restare?

Foto di Tommaso Gutesa e Filippo Davoli durante una lezione di italiano
Tommaso Gutesa e Filippo Davoli
durante una lezione di italiano

Durante le ore di tirocinio, facevo lezioni private di matematica e spagnolo a un ragazzo che veniva in struttura. Facevamo gli esercizi insieme e gli spiegavo cosa sbagliava, tutto in allegria e in armonia. Finito il tirocinio, Filippo Davoli, il maestro dell’associazione, mi ha proposto di andare con lui ad Appignano per un corso di italiano a una comunità di migranti. Sono stato super propenso a iniziare questa piccola avventura. Mi ricordo che c’erano una lavagna e un lungo tavolo. Era bello perché, a turno, ognuno diceva la sua. Correggevamo gli esercizi e mangiavamo tutti insieme. È stata una bellissima esperienza che mi ha permesso di condividere le mie conoscenze e far sì che quei ragazzi abbiano imparato le basi per vivere in un Paese estero.

Favorire l’integrazione: qualcosa in cui credi molto.

Assolutamente sì. Mio padre è croato, quindi chi meglio della mia famiglia può capire? Siamo una famiglia di migranti. Una famiglia nata in territorio italiano, ma il cui capostipite non lo è. Perciò, sento forte il bisogno di cercare di integrare una comunità minore nella nostra nazione e di farla sentire accettata e uguale a tutti gli altri.

Parliamo di persone arrivate in Italia in che modo?

Molto spesso clandestinamente, quindi tramite barconi e rotte inimmaginabili. Altre volte, come nel caso della comunità peruviana, con meno problemi, grazie a un accordo speciale con la Spagna. In generale, la difficoltà che tutti trovano è l’apprendimento della lingua. Quello è lo scoglio principale per integrarsi. In secondo luogo, la ricerca di un equilibrio tra lavoro o scuola e vita privata.

In certi casi, alcune comunità di immigrati sembrano isolarsi, rallentando il proprio processo di integrazione. Che ne pensi?

Più che isolarsi, direi farsi forza a vicenda. Vivendo le stesse situazioni quotidiane e confrontandosi, queste persone riescono ad avere un riscontro positivo tra di loro e ad andare avanti. Anche una semplice passeggiata o lo stare insieme nelle case è un modo per evadere dalla realtà, ma anche per affrontarla. Quindi, più che un difetto, penso sia una qualità, una soluzione per non rimanere soli.

Secondo te, cosa potrebbe migliorare questo processo?

C’è bisogno di un’ottima “pubblicità” tramite eventi, ma anche tramite social. La divulgazione del messaggio di volontariato deve essere efficace e, attraverso esperienze concrete, deve poter far vedere che dà frutti. È una questione molto personale, dettata anche dalla nostra educazione. Per questo, si dovrebbe cambiare l’ottica generale, andare indietro nel tempo e dire: “Ok, dobbiamo formare i nostri giovani partendo dalle scuole”. Bisognerebbe far capire fin da subito che, se fossimo al loro posto, vorremmo avere un aiuto, qualcuno che ci prende per mano e ci guida. È un mettersi a disposizione del più debole. È immedesimarsi.

Foto di Tommaso Gutesa, Filippo Davoli e Tijani Uzoma Amanze
Tommaso Gutesa e Filippo Davoli insieme
all’operatore sociale Tijani Uzoma Amanze

C’è un episodio della tua esperienza a cui sei più legato?

Mi è rimasta impressa la gestione dei ragazzi un po’ più vivaci da parte degli operatori. Quando io, ad esempio, pensavo di alleviare un po’ il peso dei compiti o delle faccende, gli operatori erano pronti a dire: “No”. Quando, invece, pensavo fosse necessario essere un po’ più rigidi, ecco l’esatto contrario. Mi ha molto colpito il modo di gestire i propri ragazzi, e uso propri perché, una volta che entrano in struttura, gli operatori sentono il desiderio di conoscerli, così sono in grado di utilizzare un metodo personalizzato sia per insegnare sia per rapportarsi con loro. Come episodio singolo, non posso non citare quando sono andato ad Appignano con il maestro di italiano. È stato un momento bellissimo, soprattutto il pranzo. Un momento di condivisione a 360 gradi.

Quale parola, per te, rispecchia di più il concetto di volontariato?

Condivisione, perché condivido una parte di me per ricevere in cambio degli input, un sorriso, un po’ di brio, un po’ di calore dalla mia apertura mentale ed emotiva nei confronti delle persone che aiuto. È proprio il concetto di donare una mia qualità per farla imparare a qualcun altro che non ne ha e per ricevere quel minimo di soddisfazione e gratificazione in cambio. È quello che mi spinge a continuare queste mini-azioni di volontariato.

Pensi di proseguire questa esperienza?

Se deciderò di restare a Macerata, sì. La possibilità e il desiderio di continuare c’è ed è forte, anche perché sono rimasto in ottimi rapporti con gli operatori dell’Acsim e con il maestro di italiano. Mi piacerebbe essere ancora presente, dare una mano e vedere come procedono questi ragazzi nella loro crescita personale. Non nego che altrove sarebbe più difficile. Sono un ragazzo molto razionale e vivo di priorità. Quindi, prima dovrei trovare un equilibrio tra lezioni e vita personale. Poi direi: “Sì, perché no? Facciamolo anche qui”.

Come si raggiunge questo equilibrio?

La gestione del tempo, per me, è una battaglia. Sto imparando ad avere un planning mentale e fisico per capire come gestire la giornata. È difficile, bisogna scendere a compromessi tra il dovere e quello svago buono, come lo sport, di cui sono un amante perché mi dà tanto. È lo stesso concetto del volontariato: è uno svago produttivo perché mi tiene impegnato e perché so che do tanto a quell’attività, ma che è tanto quello che ricevo. La gratificazione sta nelle piccole cose: nella chiacchierata post pranzo o post giornata di studio insieme con i ragazzi che si confidano con me nei loro minimi strumenti linguistici, che mi fanno sentire una canzone che a loro piace, che mi condividono qualcosa. È in queste piccole cose che vedo il “soldo”, la maniera in cui vengo ripagato.

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