“Grazie al volontariato ho imparato a mettermi nei panni degli altri”


Nel 2022 Elisabetta Figini ha partecipato a una missione umanitaria in Bosnia ed Erzegovina, diventata poi uno spettacolo teatrale. Elisabetta è la protagonista di questa puntata del podcast e del blog.
Elisabetta Figini è di Jesi, ha 27 anni, è laureata in Lingue e in Cooperazione internazionale allo sviluppo. Tra settembre e ottobre del 2022, insieme ad altri dodici giovani marchigiani, ha partecipato a una missione umanitaria organizzata da Caritas Marche nei campi profughi di Lipa e Usivak, in Bosnia ed Erzegovina, luoghi di passaggio dei migranti che provano ad arrivare in Europa attraverso la rotta balcanica.

Cosa ti ha spinto a partecipare a questa missione?
Stavo concludendo l’università e mi dovevo laureare. Era un periodo in cui volevo capire cosa fare della mia vita. Cercando su internet, mia madre ha trovato l’avviso di questo progetto. Quando l’ho visto, mi sono sentita “chiamata” perché univa la scoperta di qualcosa che avrei potuto fare per lavoro, a un’esperienza di volontariato diversa da quelle che avevo già fatto e la volontà di conoscere un fenomeno che mi aveva sempre interessato.
Cos’hai trovato una volta lì?
Siamo andati in un periodo abbastanza movimentato, di partenze prima dell’inverno, che ci ha permesso di conoscere tante persone e di assistere a questo fenomeno con maggiore coscienza. La frontiera croata è la più difficile da superate perché è la porta d’ingresso all’Unione Europea e al sistema di accoglienza comunitario. Perciò è un confine molto protetto e capita spesso che persone che abbiano oltrepassato la frontiera vengano rimandate indietro: i cosiddetti respingimenti, un fenomeno illegale, parte di quello che viene chiamato “game”, il gioco, cioè il percorso che queste persone devono fare fino alla “vittoria”, all’arrivo a destinazione.
Cos’hai fatto in quei giorni?
Siamo stati divisi in due gruppi: il mio è andato a Lipa, al confine con la Croazia, dove c’è un campo per uomini maggiorenni che viaggiano da soli. L’altro a Usivak, dove vengono accolti famiglie e minori non accompagnati. In entrambi i campi ci sono dei social cafè, spazi dedicati ad attività ricreative. Noi eravamo lì e organizzavamo giochi e laboratori di disegno e di costruzione di strumenti musicali. Attività molto semplici, infatti eravamo un po’ preoccupati di non essere rispettosi nei confronti di queste persone e di non ricevere una risposta positiva. Invece, è successo il contrario: c’è stata molta partecipazione, perché offrivamo un momento di spensieratezza e di distacco dalla realtà.

Eri preparata a quello che hai visto e vissuto?
Prima di questa esperienza, avevo fatto volontariato con migranti rifugiati in Italia e quello che mi aveva colpito era il loro non saper cosa fare, lo stare fermi in un posto e la libertà limitata da un sistema di accoglienza che cerca di gestire un grande flusso di persone, ma che, visto dal singolo individuo, è un momento di stallo nella sua vita. Quello che ho visto in questi campi, invece, erano persone speranzose. Abbiamo conosciuto l’insegnante, l’interior design, il calciatore e tanti giovani che volevano semplicemente studiare. Persone con desideri che difficilmente potranno essere realizzati perché in Unione Europea molti titoli di studio non sono riconosciuti. La domanda che ci facevamo era: “glielo dico o non glielo dico?”.
Glielo dicevate?
Dipendeva dalle persone. Per esempio, c’erano due fratelli che venivano dal Sudafrica e che, essendo di colore, erano fuggiti perché non riuscivano a vivere tranquillamente lì. Uno faceva l’interior designer e voleva andare a Milano per lavorare, ma non sapeva che, arrivato in Italia, forse non sarebbe riuscito a farlo. Se trovavamo un modo adeguato per dirlo, cercavamo di far capire che non è così automatico. In altri casi, siamo rimasti in silenzio, per non rompere quella speranza.
Tra le storie che hai ascoltato ce n’è una che ti ha colpito di più?
Quella di Andri, la persona con cui ho passato più tempo. Un ragazzo partito dalla Repubblica Domenicana, dove aveva lasciato due bambine, che voleva andare in Spagna per raggiungere la sua compagna e far, poi, arrivare le figlie. Quando l’ho incontrato era sì e no a metà strada. Mi sono avvicinata a lui perché ero l’unica che conosceva lo spagnolo. Era un tipo abbastanza solitario, però mi ha insegnato a giocare a domino, che è un po’ come la briscola per noi. Abbiamo giocato moltissimo e questo mi ha permesso di conoscere la sua storia.
Cosa ti ha lasciato questa esperienza?

Un ulteriore sviluppo della mia empatia, che mi porto nella vita di tutti i giorni e nelle esperienze che faccio, e il sapermi mettere nelle scarpe dell’altro. Entrando nelle situazioni, si riesce a capire meglio, a comprendere e, magari, anche a cambiare idea. Col tempo, questo può essere fatto sviluppando l’empatia, senza vivere direttamente le esperienze.
Una volta tornata in Italia, che è successo?
Era previsto un percorso per restituire l’esperienza che avevamo vissuto. Abbiamo iniziato con attività di sensibilizzazione nelle scuole. A un certo punto, volevamo fare di più e arrivare a più persone e, dato che una di noi è appassionata di teatro, già in Bosnia aveva buttato lì l’idea di fare uno spettacolo. Siamo riusciti a realizzarlo e l’abbiamo portato ad Ancona, Pesaro e Macerata. I testi sono storie che abbiamo raccolto al campo e rielaborazioni della nostra esperienza.
Dicci con una parola cosa rappresenta per te il volontariato.
Incontro. Per gli incontri fatti nella mia esperienza sia con gli uomini che si trovavano al campo sia con le mie compagne di viaggio sia con le persone che incontriamo e che ci vengono ad ascoltare a teatro. Incontro perché da tutti questi incontri si impara tanto.

CSV Marche ETS - Centro Servizi per il Volontariato delle Marche ETS - Via Della Montagnola 69/a - 60127 Ancona
C.F. 93067520424 - Partita IVA 02596800421 - iscrizione al RUNTS decreto n. 85 del 24/05/2022 | Privacy Policy